“Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”. Sono alcune delle parole con cui papa Francesco ha salutato gli oltre 2200 delegati convenuti a Firenze da tutte le diocesi italiane per partecipare al V Convegno Ecclesiale Nazionale.
Molti commentatori si sono affrettati a definire l’intervento del Papa come la definitiva archiviazione dell’era ruiniana per la chiesa italiana, a me piace leggerlo come un forte richiamo ad un ritorno alla dimensione evangelica, intesa come capacità di vivere ed annunciare il Vangelo in un contesto ormai secolarizzato e a forte rischio di individualismo e frantumazione sociale.
Francesco ha messo in guardia dalla tentazione di rimanere aggrappati alle strutture, alle organizzazioni oliate e perfette e dal rischio di limitarsi a ragionamenti logici e chiari, lontani dalla tenerezza per la carne dei fratelli. Sono condizioni per poter costruire un nuovo umanesimo all’insegna dell’umiltà, del disinteresse e della beatitudine, sentimenti che papa Francesco ha affidato alla chiesa italiana come chiavi per stare lontana dalle logiche di potere vivendo nel mondo, nella cultura e nella vita quotidiana della gente.
Il Papa ha detto di non voler dare indicazioni o direttive precise, perché spetta alla chiesa italiana decidere, laici e pastori assieme, quale cammino percorrere per vivere pienamente il Vangelo e conformarsi a Cristo.
Francesco chiede però ai vescovi di essere pastori e alla chiesa intera di essere vicina ai poveri. Basterebbero queste parole per un profondo esame di coscienza delle comunità ecclesiali italiane che il Papa immagina come fermento di dialogo, incontro e unità per una società che “si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo”.
Il vescovo di Roma esorta a non dimenticare la necessità di un confronto aperto e concreto, che vada oltre il rischio di alzare sterili barriere ideologiche: “Ricordatevi che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”.
Prendendo spunto dalla bellezza di Firenze, il Papa ha ricordato come una nazione non sia un museo da contemplare o difendere, “ma un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”.
Tocca anche alla chiesa italiana vivere e realizzare il sogno di una comunità nazionale che accompagni chi è rimasto ai bordi della strada e non costruisca muri o frontiere, ma piazze e ospedali da campo.
E meno male che aveva dichiarato di non voler dare indicazioni o compiti precisi…
Fabio Pizzul
@fpizzul