Siamo giunti alla conclusione, dopo un percorso faticoso e accidentato durato molti mesi, dell’iter legislativo in Senato del disegno di legge Cirinnà. Il dibattito, sia in Parlamento che fuori, è stato una grande occasione, in parte, anche mancata.
È stata una grande occasione colta se si considera che dopo trent’anni di tentativi andati a vuoto (alcuni ricorderanno i DICO per i quali si arrivò ad una crisi di Governo) si è giunti ad una regolamentazione con riferimento all’art.3 della Costituzione (e non all’art.29) dell’unione tra omosessuali, che la Corte Costituzionale aveva ritenuto necessaria già nel 2010 e per la cui mancanza l’Italia aveva subìto diverse condanne anche in sede europea.
E’una grande occasione mancata se si guarda al modo in cui si è sviluppato una puntata della saga tra Peppone e Don Camillo. Da una parte e dall’altra si è finito col fare di questa vicenda una caricatura delle posizioni altrui, utile forse a fini di propaganda ma non certo a far avanzare il livello di comprensione dei problemi e la loro soluzione. Una caricatura ingiusta se si considera che da parte cattolica, ad esempio, non si è mai fatto ricorso ad argomentazioni di natura confessionale, tanto che tra le fila dei cosiddetti Cattodem si sono trovati molti esponenti di provenienza culturale tutt’altro che cattolica, posizioni che oggi, dopo l’approvazione del disegno di legge, vengono fatte proprie anche da esponenti del mondo femminista o della sinistra radicale (si veda ad es. la recente intervista di Stefano Fassina su l’Avvenire). Certo non hanno aiutato i toni di alcuni promotori del Family Day (curioso che tra i difensori della famiglia ci fossero così tanti divorziati) né gli insulti sui social di alcuni membri della comunità LGBT.
Anziché passare il tempo a delegittimarsi vicendevolmente sarebbe stato bello cercare di confrontarsi e capirsi sui temi alti che erano in gioco, quali ad esempio il ruolo della famiglia in una società sempre più individualista, la precarietà dei rapporti (non solo economici, ma anche affettivi), il ruolo che lo Stato e le istituzioni possono avere per dare maggiore stabilità alla vita delle persone e alla costruzione del futuro. Mi ha molto colpito, ad esempio, che molti abbiano percepito le unioni civili come un attacco alla famiglia, ma praticamente nessuno abbia commentato la seconda parte della legge, quella relativa alle convivenze di fatto che si applica anche alle coppie etero, prevedendo un regime giuridico di protezione di situazioni di convivenza che può diventare, questo sì, alternativo al matrimonio.
La grande polemica si è però sviluppata intorno alla questione della stepchild adoption, che ovviamente è cosa ben diversa dalla questione delle unioni civili ed è anche cosa diversa dalla gravidanza surrogata (giornalisticamente: utero in affitto). L’adozione del figlio del partner, da tempo legittima per le coppie etero, è una possibilità completamente distinta dalla tecnica di procreare tramite il ricorso ad una donatrice di ovuli e ad una prestatrice di utero che invece è una pratica vietata in Italia e in molti paesi esteri sia per gli etero che per gli omosessuali. Confondere i due piani del discorso è stato utile a chi opponendosi alla surrogata non voleva neanche la stepchild, ma certo in questo c’è anche una responsabilità di chi, lasciando un’area grigia interpretativa, sperava al contrario di aprire una breccia a favore della maternità surrogata.
Alcuni casi di cronache di queste ultime settimane provenienti dai reparti di ostetricia di ospedali californiani fanno pensare che certe diffidenze non erano del tutto malposte.
Speriamo che la modifica della normativa sulle adozioni sia l’occasione per un confronto più sereno e fecondo.
Roberto Cociancich – Senatore PD