Incremento demografico e flussi migratori sono stati due caratteri distintivi dell’Italia sin dalla sua Unità, quando calcolava 26,3 milioni di abitanti. Novant’anni dopo, nel 1951, in occasione del primo censimento dell’Italia repubblicana, la consistenza demografica del nostro Paese raggiungeva quota 47,5 milioni.
Quando negli anni Cinquanta e Sessanta la medicina e la tecnologia sono riuscite con grande sforzo a ridurre la mortalità infantile, giovanile e adulta (e la qualità della vita per gli anziani è migliorata notevolmente), la popolazione è cresciuta a vista d’occhio. Nel 1981 infatti il Paese contava 56,5 milioni di abitanti. A questo punto però sia la mortalità che le nascite si sono fermate. E insieme a loro anche gli espatri. Per vent’anni la popolazione non è più cresciuta, né diminuita. Semplicemente è invecchiata. Finché la clessidra si è capovolta. I flussi migratori hanno invertito la rotta. Se prima gli italiani erano un popolo con la valigia pronta, ora sono il Paese che riceve i migranti.
È solo grazie agli immigrati, infatti, che la popolazione nel primo decennio del XXI secolo è tornata a salire in modo rilevante. Al censimento del 2011 i residenti in Italia hanno superato i 60 milioni. Il primo giorno del 2015 il dato è di 60,8 milioni. Se però escludiamo gli stranieri e prendiamo in considerazione solo i cittadini italiani il dato scende a 55,7 milioni. Meno del censimento del 1981 (=56,5 milioni). Ciò che ci aspetta non è più una popolazione autoctona che semplicemente invecchia, ma che diminuisce e invecchia. Nel 2015 infatti, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, la popolazione complessiva è diminuita, molto di più delle previsioni di cinque anni fa. Mancano all’appello più di un milione di residenti che si pensava di avere ancora in Italia. Perché? Tanti sono i motivi. Meno ingressi e più uscite (con buona pace della Lega Nord), ma soprattutto un calo delle nascite senza precedenti dall’Unità d’Italia (meno di 500 mila bambini nati in un anno).
Alla fine degli anni Settanta in Italia il numero medio di figli per donna è sceso sotto la soglia di due. Da quel momento le generazioni dei figli sono inevitabilmente meno consistenti di quelle dei genitori. Questo porta con sé conseguenze economiche e sociali gravi (impoverimento, insostenibilità fiscale, vuoti nel sistema pensionistico…). In compenso però abbiamo riempito la nostra società di figli unici, adorati, coccolati, viziati e contesi tra genitori, nonni, zii e baby sitter. Passiamo ore e ore a leggere manuali e libri di puericultura per educare e crescere quell’unico figlio, come un germoglio in mezzo a un bosco vuoto e arido. Meno figli e più giocattoli, molti più giocattoli. Così tanti che sarebbero stati eccessivi anche per le famiglie numerose degli anni Cinquanta che quando si mettevano a tavola apparecchiavano per quindici. E abbiamo riempito la nostra società anche di tanti problemi inutili: l’età giusta per diventare genitori, il contratto a tempo indeterminato e quindi il mutuo per un casa più giusta per accogliere un figlio, la tata madrelingua che insegni l’inglese mentre i genitori sono al lavoro… Forse è giusto che ci estinguiamo.
Marta Valagussa