Nei soli cinque mesi di quest’anno, 59 donne uccise dall’uomo che diceva di amarle; se partiamo dal gennaio 2015 il conto sale a 156 vittime. Situazione tragica, che credo debba interpellare primariamente i maschi. Femminicidio: violenza estrema maturata in un contesto familiare o almeno di fiducia sentimentale, con un rapporto che si è interrotto o tende ad interrompersi. Sì, perché spesso la motivazione di questi esiti è la non accettazione dell’abbandono.
Negli ultimi cinquant’anni le donne hanno fatto molti passi avanti nell’affermare che <appartengono a se stesse> con effetti sul piano legislativo: in termini di parità giuridica basti pensare che negli anni settanta l’adulterio femminile era ancora reato (solo l’adulterio femminile naturalmente!) ed è dovuta intervenire la Corte costituzionale per ricostituire la parità abrogando quella norma. Come del resto c’è voluto del tempo per abrogare il ‘delitto d’onore’. Altri aspetti resistono, come quello salariale e in parte quello politico, mentre le donne sono sempre più preparate ed affermate professionalmente. Dopo la recente legge che ha reso lo stalking perseguibile come reato, vi è stata un’emersione della problematica in quanto ha reso possibile la sua denuncia.
Ma questa esplosione del delitto su donne ‘amate’ non è solo l’ulteriore degenerazione di una violenza sulle donne che si va diffondendo, ma è anche segnale grave di una degenerazione che si espande. La quantità di femminicidi – oltre alla gravità di ogni singola uccisione – ci interroga oggi profondamente come società, e su vari livelli: delle malattie mentali, delle fragilità psicologiche, della criminologia ma anche della concezione che si ha del rapporto affettivo e dell’amore, dell’antropologia, della stima reciproca e degli effetti, di una gelosia che diventa egoismo e addirittura odio (o con me o con nessuno).
Qualcuno imputa a noi uomini di non essere attrezzati rispetto al fallimento, alla constatazione che una ‘proprietà’ che si considerava intangibile non regge più, e nella difficoltà di riconoscere che la libertà è un ingrediente dell’amore. Altri ci segnalano il rischio della ‘evaporazione’ della figura maschile e specificatamente di quella paterna, così necessaria per crescerei figli insieme alle loro mamme, insegnando loro il rispetto reciproco.
Sono tutte cose per le quali la sola norma risulta uno strumento troppo rozzo e spesso tardivo, comunque insufficiente, per poter andare nel profondo ed incidere sui comportamenti. Accanto all’adeguamento della norma occorre allora, mi pare, uscire da una visione individualistica ed egoistica, di prepotenza, oggi veicolata con troppa facilità anche attraverso i mass media (non una norma ma una più rigorosa auto regolamentazione sì). Non vi è più la forza della cultura, delle fedi e delle ideologie a contenere e a giudicare socialmente i linguaggi e i comportamenti.
Un po’ di esercizio di volontà nei giovani, di educazione in casa, a scuola e negli ambiti associativi, di esempio dagli adulti, di regole culturali più condivise potrebbero rimetterci sulla prospettiva della libertà di tutti.
Paolo Cova