Ci si dovrebbe rallegrare se, dopo molti tentativi falliti (da ultimo il progetto di riforma AC. 5386, licenziato dal Senato nel luglio 2012 e poi arenatosi), il Parlamento ha approvato un progetto di riforma costituzionale mirato a modificare la nostra struttura istituzionale, apparsa invecchiata in più punti.
Al contempo, la riforma, frutto d’ineludibili compromessi parlamentari, purtroppo sconta un vizio genetico di natura politica, derivante dal metodo seguito, che desta non futili preoccupazioni in vista del momento referendario.
L’iniziativa legislativa assunta dal Governo, vero “sponsor” della riforma, ha portato a forme non velate di forzature parlamentari che hanno condotto a un’approvazione del testo da parte della sola maggioranza, rischiando, in definitiva, di pregiudicare il senso della Costituzione come insieme di regole condivise. Ciò, con l’incognita che si apra una non auspicabile spirale di contro-riforme, con grave pregiudizio per la stabilità costituzionale. Senza dimenticare che l’intraprendenza governativa ha già avuto il non desiderabile effetto di subordinare il quesito esplicito (il merito della riforma), al quesito implicito (la fiducia nell’esecutivo).
Venendo al merito, ci sono alcuni difetti, ma anche il tentativo di dare risposte a problemi reali del nostro assetto istituzionale.
L’auspicata fine del bicameralismo perfetto è raggiunta tramite un Senato la cui composizione (74 senatori-consiglieri regionali designati dai consigli regionali, 21 senatori-sindaci, 5 senatori settennali) non appare idonea a garantire la dovuta autorevolezza alla seconda camera, cui sono chiesti compiti di raccordo tra Stato e Regioni ma anche funzioni di controllo sulla camera politica. Vi sono alcune dimenticanze, come l’istituto della sfiducia costruttiva, la previsione del referendum propositivo (solo promesso dalla riforma) e l’eliminazione dell’anacronistico sistema delle regioni a statuto speciale (giustificato solo per il Trentino –Alto Adige).
Dall’altro lato, si riscontrano intuizioni interessanti, come l’istituto del disegno di legge a data certa, che mira a ridurre la malsana prassi di legiferare attraverso i decreti legge. Si tratta della facoltà per il Governo di chiedere alla camera dei deputati che un disegno di legge, indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, «sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta». Oppure il controllo preventivo della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali, che dovrebbe escludere di votare nuovamente con leggi poi dichiarate incostituzionali o, ancora, la decisione di eliminare il quorum costitutivo per il referendum abrogativo, laddove la richiesta sia effettuata da un numero più alto di elettori (800.000 anziché 500.000).
Quindi, un post scriptum. Sarebbe stato meglio abbandonare l’idea del “pacchetto” di riforme contenuto in un’unica legge costituzionale e votare invece «tante leggi quanti sono gli oggetti sostanziali che si è voluto riformare» (V. Onida Corriere della Sera, 18 maggio 2012).
Il “pacchetto”, infatti, porta con sé una riduzione della libertà del voto dei cittadini in sede referendaria, comprimendoli nella logica del prendere o lasciare, con un solo monosillabo.
Martino Liva
Avvocato, Assistente di diritto pubblico dell’economia