Abbiamo chiesto a Guido Formigoni di raccontarci il suo approccio di studioso alla figura di Aldo Moro. Lo ringraziamo della disponibilità.
Ho provato a scrivere una biografia complessiva di Moro (Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino, Bologna 2016). Non è stato compito agevole, perché si può raccontare una personalità solo se si prova a entrare con simpatia nel suo mondo. E questo non è semplice per Moro, perché ha sempre mostrato un notevole pudore, un nascondimento dei sentimenti. D’altro canto, il rischio di questa operazione è sempre quello di avvicinarsi così tanto da rischiare di sfociare nell’agiografia. Tanto più per quanto riguarda una personalità fortemente controversa, proprio per il suo ruolo cruciale e per le sue scelte, che gli causarono nemici acerrimi (soprattutto a destra). Smontare le interpretazioni improprie è stato possibile. Ho però tentato di non sottovalutare nemmeno contraddizioni e limiti.
Nel caso di Moro, ulteriore complessità è stata fornita dalla sua morte violenta. Che ha oscurato la sua vita nella memoria degli italiani, nella persistente mancanza di una verità storica. Ma ha anche gettato un’ulteriore ombra malata di precomprensioni e critiche sulla sua personalità. In questo, ho inteso contribuire a ridargli la dignità che molti gli avevano più o meno strumentalmente negato. Il Moro dei cinquantacinque giorni non è stato affatto un piagnucoloso familista, disattento al valore dello Stato. Per quanto possiamo capire dagli scritti – monchi e parziali – che oggi conosciamo, non ha ceduto ai suoi carcerieri e pur nella tortura psicologica e morale tra la vita e la morte, si è mostrato uomo e cristiano integro: ha soltanto cercato ancora di fare politica, collegando la sua salvezza personale al tentativo di sanare la ferita di uno Stato che aveva fallito il 16 marzo.
Si può discutere invece all’infinito della politica di Moro, prima della sua tragedia. Penso che tutte le sue scelte essenziali si possano collegare a due opzioni fondamentali. Egli maturò il senso essenziale della sua progettualità politica alla Costituente. Dalla condivisione delle battaglie del gruppo dossettiano maturò la convinzione secondo cui il problema politico fondamentale del dopoguerra era perseguire e avvicinare sempre meglio il progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione, allargandone il sostegno. Dalla collaborazione con De Gasperi, invece, ricavò la constatazione complementare secondo cui la Dc si sarebbe potuta muovere in quella direzione solo portandosi dietro faticosamente il moderatismo italiano: un concetto espresso primariamente nell’esigenza continua di unità del suo composito partito. In fondo, questi resteranno sempre i confini della sua elaborazione politica: una volontà di cambiamento, nei limiti concessi dagli equilibri delicatissimi del paese.
E qui arriviamo al sottotitolo del libro. Perché lo statista? Molti hanno negato tale definizione, ritenendolo al massimo un tattico. A me pare che egli sia stato sempre capace di agire sulla realtà, di produrre nuovi elementi di statualità (riforme, accordi di politica estera, scelte di governo evolutive). Il dramma invece, nacque perché i diversi elementi che dovevano stare assieme nella sua politica (cambiamento ed equilibri, innovazione e stabilità, difesa della Dc e apertura alla società, dialogo con le sinistre e fedeltà alle alleanze) progressivamente sono diventati sempre più difficili da contemperare, provocando in lui una tensione esistenziale, che lo segnò ben prima della morte violenta.