Sono vari i modi in cui si manifestano oggi le povertà. Valerio Pedroni – direttore della Fondazione Somaschi- da questo osservatorio quali sono quelle più evidenti? E quali restano nascoste?
L’impoverimento economico portato dalla crisi è il fatto più evidente: in questi anni sono aumentate esponenzialmente le segnalazioni di famiglie che vengono sfrattate perché non riescono più a sostenere i costi dell’affitto. D’altronde basta poco: per una famiglia mono-reddito la perdita anche momentanea del lavoro è un fatto devastante. Tuttavia la povertà che più ci preoccupa è quella relazionale: la fragilità delle reti informali di sostegno e la precarietà dei legami rende vulnerabili alla minima difficoltà. Questo tema riguarda trasversalmente i ceti sociali, italiani e immigrati.
Ma oltre l’<emergenza straordinaria>, forse vi sono anche emergenze che si protraggono nel tempo…
Il caso dell’immigrazione è quello più attuale. A prescindere che la politica internazionale possa o meno cambiare le cose, oggi di fatto i flussi migratori sono difficilmente contenibili e perciò l’accoglienza deve essere gestita e non subita. Per farlo bisogna studiare un sistema di accoglienza in cui le strutture siano piccole, diffuse e ben gestite e non grandi e accentrate. Bisogna ingaggiare i contesti locali, facilitando la relazione con le associazioni e il terzo settore. Purtroppo le direttive nazionali su questo sono state sinora molto deboli ed i Comuni non sono stati supportati ad agire in una logica di sistema.
Si avverte una differenza fra la città di Milano e la più vasta area metropolitana?
Milano non è un blocco monolitico, ma è una città composita dove ogni quartiere ha il suo genius loci e le sue criticità. Nel centro oltre ad alcune evidenze sui ‘senza dimora’ diventato evidente nei giorni di freddo, abbiamo il tema degli anziani soli, dove il benessere economico non va di pari passo con quello sociale e relazionale, che diventa pericoloso isolamento. Anche le periferie sono mondi diversi tra di loro: si incrocia più frequentemente la povertà, ma spesso il tessuto sociale è più coeso e più capace di rispondere ai problemi. Stessa cosa per l’hinterland: la differenza la fa la coesione sociale che rende le comunità resilienti: si risponde ai problemi individuali delle famiglie laddove non si vive il territorio come dormitorio, ma come luogo da coltivare e in cui stabilire relazioni.
Come funziona, se c’è, la collaborazione e la complementarietà fra pubblico e privato? E fra professionalità e volontariato?
Oggi si parla di welfare generativo, per indicare un sistema di cura e di attenzione alle povertà che non poggi esclusivamente sulle risorse pubbliche e veda il privato come mero esecutore e fornitore di servizi. Istituzione e terzo settore oggi devono essere uniti nella sfida di animare i territori che significa generare partecipazione, volontariato, coesione, filantropia delle imprese e opportunità nuove di impegno civico. La sfida del welfare non si vince segmentando i ruoli e parcellizzando i compiti, men che meno con lo spirito della delega in bianco. Ma ingaggiando tutti i soggetti e smarcandosi dai dualismi -pubblico e privato, forte e fragile, assistito e assistente, italiano e immigrato-. Si vince solo insieme.
(P.D.)