“La voce sommessa e piena di dolore di Fabiano che invoca la morte è rimbalzata sui media in questi giorni e ha raggiunto come una pugnalata anche la mia coscienza”. Così Silvia Landra, psichiatra e presidente di Azione Cattolica ambrosiana, inizia a raccontare come ha vissuto la nota vicenda di dj Fabo, l’uomo cieco e paralizzato a causa di un incidente, che ha deciso di chiedere l’eutanasia in una clinica in Svizzera.
Qual è stato il primo sentimento che hai provato, dopo la notizia della scomparsa di Fabiano? Una mente vivace, giovane e piena di desiderio era quella di Fabiano, rinchiusa in un corpo che non risponde e soprattutto nell’oscurità del non vedere: uno scenario che mi terrorizza. L’immersione nella paura e l’identificazione inevitabile lasciano subito lo spazio ad un impeto di rabbia e di rifiuto. La mia coscienza è piena di domande e la mia fede grida.
Siamo spiazzati da questo male così duro. Eppure la fede grida, come lei ha appena sottolineato. In che modo la fede cristiana sostiene chi vive questo calvario, come malato e come parente o amico? Il Vangelo suggerisce uno sguardo che fa scendere dal trono delle certezze, che dice di non ergersi mai a giudici, di amare l’altro come se stesso, di affidarsi al Signore del tempo e della storia senza passività, conducendo la propria lotta interiore fino all’ultimo. Fabiano e i tanti come lui mi danno una lezione su questo combattimento vissuto con tutte le proprie forze.
Nella sua esperienza professionale come psichiatra le è mai capitato di trovarsi a fianco di persone che decidessero di non lottare più? Molte volte. Ho conosciuto tanti che desideravano il suicidio ed esprimevano una lotta drammatica, descrivendo un abisso di dolore, anche in assenza di un corpo straziato e inerme. Io continuo a dire loro ciò che mi hanno insegnato i miei formatori e che negli anni ho fatto mio: “Ho scelto di curare. Ho scelto la vita. La difendo con te e la difendo al tuo posto, se mi dici che in questo momento non hai la forza per farlo”.
E’ sempre riuscita in questo suo scopo? No. Purtroppo in cinque casi, dei quali mi ricordo quasi ogni sillaba dei dialoghi intercorsi, l’altro ha scelto la morte. Il mio esserci, come quello dei familiari, degli amici, di altri operatori, si è poi dipinto di disorientamento, senso di impotenza e colpa. Si avvertono le nostre povertà, le disattenzioni dei servizi, le vere e proprie mancanze. Ma si avverte anche la potenza del mistero della vita e della morte.
La vicinanza degli amici e dei parenti evidentemente non basta. Serve l’azione di un soggetto collettivo. Ma in che modo? Triplice compito, arduo ma inevitabile, quello del discernere, del legiferare e del mettere in atto con l’adeguata progettazione sociale. Su temi come quelli evocati dalla vicenda di Fabiano, si può rispondere solo con la politica più intelligente, più dialogica e più coraggiosa di cui siamo capaci. Al tavolo della politica ci si siede con la competenza tecnica di chi sa fare leggi e sa tradurre le istanze valoriali condivise in norme da seguire. Si fa di tutto perché prima del dilemma radicale da affrontare sia messa in campo ogni risorsa possibile per favorire la vita e la morte dignitosa di ognuno. Temporeggiare o non affrontare tali questioni è responsabilità grave di tutti noi.
(M.V.)