La visita al carcere di San Vittore è stato il momento più familiare e disteso della giornata di papa Francesco a Milano. Un incontro che il Papa ha voluto rimanesse fuori dall’attenzione dei media. Don Marco Recalcati, cappellano del carcere milanese, ha accompagnato Francesco lungo i raggi di San Vittore. Gli abbiamo chiesto di raccontarci che cosa rimane della vista del Papa. “A distanza di ormai diversi giorni, rimane la consapevolezza di un dono straordinario. Lo si percepisce ancora dai racconti dei detenuti, degli agenti di polizia e dei vari operatori. Un dono che ha colto di sorpresa un po’ tutti, soprattutto per la modalità con cui si è svolta la visita. C’erano delle preoccupazioni di carattere organizzativo, si era lavorato perché tutti potessero vedere e ascoltare il Papa. L’incontro reale è stato invece di una familiarità spiazzante per la capacità di incontro che il Papa ha avuto con ciascuno. L’augurio è che questo diventi consapevolezza che anche di fronte alle fragilità, dove c’è una situazione di reato e di colpa, ci può essere un modo diverso di affrontare queste persone e di affermare il primato dell’essere persona di fronte alle situazioni che uno ha vissuto e per cui è in carcere”.
Il Papa ha voluto incontrare i singoli detenuti, al di là di quelle che potevano essere le generiche affermazioni della vigilia. “C’era l’indicazione precisa che Francesco avrebbe stretto la mano solo ai detenuti dell’area protetta e ai cento con cui avrebbe mangiato. Sarebbe poi passato solo salutando a distanza. Fin da subito però il Papa ha voluto andare oltre. Ha salutato uno ad uno gli agenti che lo attendevano nell’atrio perché smontavano dal turno così come, al termine del pranzo, i detenuti che avevano fatto servizio in cucina o ai tavoli”.
C’è una parola particolare detta dal Papa che vorrebbe ricordare? “Il Papa ha iniziato il suo intervento nella Rotonda del carcere toccando il cuore delle persone, dicendo chiaramente che non bisogna dire “se lo meritano”. Ciascuno deve guardare prima ai suoi peccati e alle sue fragilità. Personalmente, convinto di questo, aggiungo che se non conosci la storia di chi hai di fronte, i luoghi dove è nato, le persone che ha incontrato, il contesto sociale in cui ha vissuto è bene non giudicare, perché il contesto di vista spesso porta a scelte che una persona non farebbe mai in situazioni più accoglienti e protette. L’altro aspetto molto bello è quello con cui il Papa ha concluso, ricordando come dietro le sbarre c’è un orizzonte più grande e invitando i detenuti a non fermarsi alle sbarre e a guardare l’orizzonte. L’elemento comune della sua visita, tra il saluto personale e le parole pronunciate, è stato la speranza. E’ importante dare speranza anche in situazioni di fragilità e smarrimento, addirittura dove c’è una colpa che non può cancellare la speranza. Il senso di colpa per i delitti commessi spesso blocca le persone, anche a loro va data speranza”.
E’ cambiato qualcosa a San Vittore dopo la visita? “Posso riportare la testimonianza di una operatrice che, vedendo come il Papa ha accolto tutti, si è riproposta di mantenere questo stile nel servizio che fa all’interno del carcere, oltre l’impazienza e la diffidenza. Vedo che c’è la voglia di custodire la testimonianza che il Papa ha portato”.
(FP)