Dirsi d’accordo sulla libertà religiosa è facile, ma è molto più difficile essere conseguenti.
Negli ultimi tempi si sono giustamente levate voci a difesa della possibilità di professare la fede cristiana in un zone lontane dall’Italia. In effetti assistiamo ancora, in diverse parti del nostro pianeta, a manifestazioni di intolleranza e violenza nei confronti credenti cristiani e di esponenti di altre confessioni. Gli stessi recenti attentati in Egitto ci fanno giustamente gridare alla persecuzione religiosa.
Qui a casa nostra, per fortuna, non siamo di fronte ad episodi di violenza e prevaricazione, ma c’è una strisciante tendenza a relegare nel privato la possibilità di manifestare e celebrare le proprie convinzioni religiose, quasi a voler affermare che, in fin dei conti, sarebbe meglio per tutti se simboli e manifestazioni religiose rimanessero confinati in una sfera non troppo pubblica e visibile. Si fa naturalmente eccezione – ma sempre meno, in un contesto laicista- per ciò che ha a che fare con la tradizione cattolica, perché la si considera parte integrante di una civiltà che, prima ancora che religiosa, ha salde radici culturali e civili.
La libertà religiosa diventa (sull’ipotesi francese), una sorta di “vivi e lascia vivere”, ovvero di indifferenza per le manifestazioni religiose degli altri, purché non siano troppo visibili e non chiedano di modificare lo status quo sociale, civile e, perché no, urbanistico delle nostre città.
Vengono giustificati in questo modo i diversi provvedimenti che, Regione Lombardia in testa, sono stati approvati per limitare la possibilità di costruire nuovi luoghi di culto, assoggettandoli a limitazioni e regole di difficile interpretazione e applicazione. Le norme in questione paiono essersi particolarmente accanite contro le moschee (unica? molteplici e distribuite?), ma hanno colpito anche parecchie strutture cristiane. Vorrei sottolineare una evidente contraddizione che stiamo vivendo: è possibile parlare di libertà religiosa se non viene riconosciuto il diritto di avere un luogo, regolare, ufficiale e legale, dove celebrare il proprio culto e professare pubblicamente la propria fede?
Credo che i due aspetti siano profondamente legati, almeno fin da quando, con l’editto di Milano, Costantino sancì qui la possibilità di esprimere pubblicamente un culto che non fosse quello ufficiale dell’imperatore. Una decisione che sta alla base di quella che poi, nei secoli, è diventato il diritto alla libertà di culto sancito dalle moderne dichiarazioni dei diritti fondamentali dell’uomo.
Forse, proprio nella città che diede il nome a quell’Editto, bisognerebbe oggi porre più attenzione a questi temi, che hanno un valore in sé ma che potrebbero contribuire a far chiedere con maggiore credibilità e forza che anche in altri paesi del mondo il diritto alla libertà religiosa venga davvero garantito.
(DP)