Sì è parlato molto, sui giornali e tra la gente, del primo derby “cinese” tra Inter e Milan alla vigilia di Pasqua. Al di là dell’analisi delle due operazioni sportive – che presentano grandi differenze tra loro nelle modalità di acquisizione, nella forza economica dei soggetti e nella capacità di gestione e sviluppo di progetti futuri – è interessante sottolineare come questo abbia posto risalto mediatico ad una realtà già in corso da tempo – il legame sempre più stretto tra Milano e la Cina – in diverse sfaccettature. Da una parte, la comunità cinese immigrata a Milano, di gran lunga la più numerosa in Italia, formata da oltre 35 mila persone (contro le 20 mila di Firenze, le 19 mila di Roma e le 18 mila di Prato), che sta vivendo cambiamenti significativi da non sottovalutare grazie alla vitalità delle seconde generazioni, che bene emerge da realtà come Associna, che unisce questi giovani cinesi in diverse attività, dall’integrazione al sostegno all’impresa, dalla ricerca di lavoro alla realizzazione e condivisione di eventi sportivi, culturali, formativi. Oltre a questo, merita una menzione il turismo cinese, dal 2014 prima fonte straniera di spesa tax free in Italia (circa un terzo del totale, con uno scontrino medio vicino ai 1000 euro), che vede in Milano la città di riferimento (circa il 35% della quota italiana, oltre il doppio rispetto a Roma, seguita poi da Firenze e Venezia). Ancor più significativo è il tema degli investimenti cinesi in Italia: dei 168 gruppi cinesi che hanno investito nel nostro Paese (con 398 imprese italiane partecipate, per un totale di oltre 21 mila dipendenti e 12 miliardi di fatturato), la Lombardia conta da sola per il 43% di questi, e il più grande investimento cinese all’estero di sempre è proprio quello milanese di Pirelli, acquisita da Chemchina per 7,4 miliardi di euro.
Davanti a tutto questo, quali considerazioni fare? Secondo alcuni sondaggi internazionali, l’Italia veleggia tra il secondo e il terzo posto tra i Paesi al mondo con i maggiori pregiudizi negativi verso la Cina (al primo posto c’è il Giappone, che ha ben altre questioni storiche aperte). Servirebbero ampi spazi per ragionare su motivazioni e conseguenze. Dobbiamo però decidere, ad esempio, se lamentarci per il calcio di una volta che non c’è più perché si gioca un derby alle 12.30 di sabato, o se contestare l’incapacità del calcio di rinnovarsi e crescere (ma allora, ben venga un derby giocato in un orario con un’audience di 850 milioni di persone in Asia, con quello che può derivarne). Dobbiamo decidere se lamentarci delle nostre fatiche economiche, o contestare l’investitore cinese che arriva da noi, dichiarando che “l’Italia si svende” (quando però arrivano capitali importanti di cui abbiamo gran bisogno e imprese straniere in grado di salvare e rilanciare nostre aziende). Dobbiamo infine decidere se chiedere più integrazione da parte della comunità cinese locale, o se lamentarci quando decidono di partecipare attivamente alla vita della società, partecipando al voto delle primarie. Insomma, la Cina a Milano non è solo folclore e costume, né mera questione di business: interroga anche il nostro atteggiamento e il nostro pensiero davanti ad un mondo globalizzato che per sua natura evolve, si intreccia e si trasforma.
Alberto Rossi