Tra me e me, come per gli 80 euro.
Scaturito dalla lotta per la leadership nel partito conservatore, Brexit è un errore, che molti – The Economist in testa – deprecano.
È un episodio dell’irreversibile crisi degli stati nazionali senza più controllo sulle loro finanze, ora in mano alla finanza globale, nel credo neoliberista che il mercato risolve ogni problema. A spese dei cittadini più poveri e indifesi con i tagli della spesa sociale e pubblica (salvo la difesa), mentre si inseguono i mal di pancia degli altri. Strategia di sopravvivenza degli stati nazionali è di scaricare le responsabilità sui cittadini e sull’Unione Europea. Una guerra con armi improprie.
Può scapparci il morto. Ad esempio, secondo The Economist e Le Monde, il partito conservatore e il Regno Unito, perché gli allibratori (il faro britannico) danno pro Brexit gli inglesi (ma non i cosmopoliti londinesi) e contro gli scozzesi e irlandesi (anche unionisti) che in UE hanno l’ossigeno mancante nel Regno.
Vittima collaterale è il patto di libero scambio USA-EU, in discussione tra mille dubbi europei, in particolare per l’eccezione americana sui loro acquisti pubblici e l’assegnazione a arbitraggi privati degli inevitabili, numerosi e gravi conflitti d’interesse tra stati e popoli, da un lato, e multinazionali, dall’altro. Ci son già passati molti stati cosiddetti sovrani (Germania inclusa), con arbitraggi affidati a tre esperti (uno per parte, il terzo forse indipendente), con indennizzi altissimi a fronte di presunte perdite di profitto, anche future, attribuite a legislazioni nazionali ritenute lesive del libero mercato, anche se a tutela della salute e dei diritti dei propri cittadini.
Nell’UE il Regno Unito ha un ruolo di lobby atlantica per libero mercato, difesa e sicurezza. Perciò, nella recente visita ufficiale nel Regno Unito, Obama ha detto chiaro che chi non lavora non mangia. Non c’è rapporto speciale con chi rinuncia volontariamente e senza seri motivi al proprio ruolo speciale di insider UE a promozione di atlantismo e neoliberismo.
Per noi europei continentali, un Regno Unito fuori dall’UE è forse il minore dei mali, magari per poi tornare, perché le condizioni ottenute da Cameron per convincere gli inglesi a restare segnano la fine della UE, già minacciata dalle brutali svolte antidemocratiche e isolazioniste degli stati orientali ex comunisti e dai mal di pancia di tanti elettori europei. È per poter seguire l’esempio inglese che quegli stati, e non solo, hanno ben accolto le richieste antiunioniste di Cameron. Rimarrebbe solo un mercato privo di controlli e sotto l’ipotetico ombrello NATO, che non sta a noi aprire.
Gli Stati Uniti sono diventati tali dopo un’atroce guerra civile tra unionisti e separatisti di cui resta testimonianza in OK (0 Killed) quando gli scontri si concludevano senza morti. Nel secolo scorso in Europa ne abbiamo fatte due ben più atroci, perché mai rinunciare all’UE per i giochi di potere nella leadership conservatrice britannica?
Giuseppe Gario