Brexit ha svelato in UK faglie tra nazioni (quattro storiche e molte immigrate anch’esse storiche), giovani e anziani, territori, capitale e paese, ricchi e poveri, partiti e loro fazioni, leader politici. E la faglia di civiltà del razzismo. All’annuncio del referendum, un ministro ammonì Cameron di avere liberato il cattivo genio dalla bottiglia.
La crisi è politica, non economica, dicono i manager. Ma non c’è chi se ne faccia carico in nome della nazione perché le nazioni sono quattro e più; né in nome del paese, perché di paesi con un loro parlamento ce ne sono diversi, ognuno diviso all’interno, pur se scozzesi e irlandesi in maggioranza europeisti e gallesi e inglesi isolazionisti (non i londinesi). Isolazionisti, non indipendentisti, perché nessuno stato europeo dipende dall’UE che, purtroppo per noi, è si fa per dire governata da 27 (ora 26) premier statali. Senza la cui approvazione la Commissione non si muove.
Le faglie europee si sanno. Gli austeri conservatori vogliono bilanci pubblici in pareggio e pure i riformatori accettano la sovranità del mercato, oggi l’unica anche in UK, dove il prodotto interno lordo (non l’occupazione) resta la bussola anche di Brexit. La fuga della lobby inglese neoliberista potrà riportare in continente l’economia sociale di mercato che ha fatto il bene e l’unità dell’Europa, finita poi ingolfata nella crisi USA, anni dopo la sua esplosione.
Al di là di un nuovo accordo, quando sarà dato che l’isola è senza governo, gli stati dell’Europa centrale hanno perso con Brexit il patrono e regista che li ha voluti a rafforzare il fronte neoliberale e NATO. Come gli altri paesi nelle loro singole valute, nell’euro abbiamo il fondamentale strumento di sovranità che, diversamente da loro condivisa, come la loro va governata politicamente.
La crisi politica può estendersi in UE e portare all’unico mercato atlantico, neoliberale e centrato sul dollaro, senza responsabilità né vantaggi condivisi: un disastro economico e politico, fuori dal controllo dello stesso governo USA. Come l’UKIP inglese, trionfante ma irrilevante nel gestire la crisi che ha provocato, di qua e di là dell’Atlantico i populisti vogliono una sovranità nazionale che è solo un loro obiettivo elettorale locale. E Brexit si mostra per ciò che è, una fuga dalla faticosa costruzione europea di democrazia condivisa da tutti, non solo dai nativi che vedono nel mondo, sempre più sconvolto da guerre civili, esclusivamente un’occasione di profitto. Una visione suicida. Il narcisismo democratico (così scrive Daniela Huber, dell’Istituto Affari Internazionali di Roma) è aberrante, come lo è democrazia sovrana russa di Putin, non a caso il mentore anche finanziario di UKIP, Front National, Lega e di tutti i populismi europei. Ultimi arrivati, pieni di aspettative, i Cinque stelle italiani.
Nata con la fine della guerra fredda, col suo ritorno l’UE è ancor più necessaria per garantirci la pace e i nostri diritti/doveri di cittadini, al posto di velleità nazionali storicamente micidiali (2016 è il centenario della battaglia della Somme). E clamorosamente incapaci, come in UK, di governarci senza dividersi e dividerci su questioni fondamentali. Ancora una volta, giocando col fuoco.
Giuseppe Gario, Londra