Verrebbe voglia di liquidare la querelle sul burkini come un tormentone estivo che attutisce contraddizioni più tragiche, nella collisione tra mondo occidentale e islam che si radicalizza. Invece è anch’essa un dito da seguire, per tentare di scoprire il mistero della luna. Una luna che coincide con il corpo delle donne, il ruolo delle donne: frontiera ultima nella sfida tra la forma millenaria del patriarcato e la democrazia paritaria timidamente affermatasi nell’ultimo secolo in occidente.
Ma il rischio di mancare il bersaglio, in una discussione che tocca archetipi così potenti, è forte. Le donne col burkini lo scelgono liberamente o lo subiscono per imposizione dei maschi-proprietari delle loro vite? Ha senso che una cultura/religione dominante imponga alle donne di svestirsi o di vestirsi, in entrambi i casi riducendole a satelliti dello sguardo maschile, perno del mondo? Le domande di fondo che monopolizzano la discussione sul vietare o no sono sensate, ma forse Il nodo contingente sfugge: sta altrove.
Parliamoci chiaro: di donne con il capo e il corpo coperto si stanno riempiendo da anni i luoghi della nostra vita quotidiana: mezzi pubblici, scuole e ambulatori, supermercati. Con una naturalezza – borse della spesa, passeggini, auricolari ecc. – che non mette a disagio nessuno e ormai non attira più neanche sguardi curiosi. E niente troveremmo da ridire nemmeno se donne così stessero in spiaggia vestite a sorvegliare bimbi dentro e fuori dall’acqua. Aspetteremmo pazientemente che nel volgere di un paio di generazioni alleggeriscano spontaneamente il paludamento: come han fatto le nostre nonne, cattolicissime, a fianco di uomini più o meno consenzienti.
Il burkini dice il contrario, invece: è un indumento di invenzione recente, di tipo tecnico, commercializzato proprio per le attività sportive: le atlete infatti ne hanno fatto sfoggio alle Olimpiadi di Rio. Davanti alla platea internazionale, rappresentanze sportive femminili che in passato non hanno partecipato alle competizioni o lo hanno fatto indossando indumenti che non temevano di lasciare scoperte parti del corpo, oggi ostentano indumenti destinati ad occultare capelli, pelle e forme femminili, che pure si esprimono, nei movimenti atletici. Una contraddizione in termini. Perché?
Nel burkini, neonate tute da spiaggia, c’è una stonatura evidente, che suggerisce un significato strumentale a qualcosa che con la tutela di valori etici e religiosi ha poco a che fare. Se la prima giustificazione del burkini è infatti la sua funzione di proteggere la femminilità da sguardi indiscreti, qui emerge anche la prima ipocrisia: quel tipo di indumento su una spiaggia occidentale attira inevitabilmente la curiosità e moltiplica le domande sulla fisicità delle donne che lo indossano. La seconda argomentazione, ovvero che il burkini in spiaggia sia una dichiarazione di coerenza delle donne alla propria fede suona ancora più dubbia: davvero difficili da esercitare in luoghi affollati di donne e uomini serenamente ma generosamente svestiti; sarebbe come sentirsi coerenti con la modestia perché si indossano slip e maglietta mentre si sceglie di frequentare un campo di naturisti: arduo crederci.
In realtà, il burkini si rivela come la spia di un islam rampante che accredita all’interno dello stesso mondo musulmano modelli sempre più radicali e contrappositivi, tutt’altro che disponibili al confronto e alla mediazione su princìpi condivisi.
È l’abito che fa il monaco? L’occidente ha conosciuto nella sua storia sia monaci capaci di abbracciare ogni creatura e parlare ai lupi, sia monaci fanatici e settari. Abbastanza per aver imparato quanto meno un po’ di lucido discernimento, anche in fatto di tuniche, veli e dintorni.
Paola Pessina