La quantità di reazioni successive al lancio della campagna relativa al Fertility Day non è stata dovuta solamente alle modalità di comunicazione: è il tema stesso a provocare in questo momento almeno una intera generazione. Si tocca la pelle viva, un nervo scoperto per tanti. E allora vale la pena andare un po’ in profondità, oltre alla campagna in sé e i suoi errori, su cui non serve spendere troppe parole: è apparso chiaro quasi a tutti che il contenitore ha “rovinato” il contenuto, perdendo l’occasione di una giusta attenzione sul tema. Inoltre, l’errore è stato non presentare una azione strategica coordinata sul tema della genitorialità e non solo della fertilità, con un tavolo di lavoro promosso da più Ministeri (Famiglia, Pari opportunità e lavoro, oltre a sanità). Infine, una tale campagna avrebbe dovuto essere contenuta all’interno di nuove politiche familiari (maternità, tema lavoro e asili nido in primis).
Fatte tali premesse, può valer la pena allargare lo sguardo con tre spunti di discussione:
1) Il tema demografico è fondamentale, a livello globale, e il nostro Paese è messo ben peggio di altri: è quasi doveroso che si occupi di promuovere la natalità. Una comunità (come è uno Stato) grande o piccola che sia si deve preoccupare di questioni come tassi di natalità/”ingresso” rispetto a quelli di “uscita”, anche per questioni di sostenibilità economica (pensioni e consumi in particolare). Alcune scelte singole hanno effetti sociali, e questo spiega il tema del “bene comune”. E – anche qui al di là del contenitore utilizzato – i quattro punti di base della campagna (pericolo della denatalità, bellezza di maternità e paternità, rischi di malattie che impediscono di diventare genitori, aiuto della medicina per donne/uomini che non riescono ad avere bambini) sono temi sensati e importanti.
2) Il tema delle condizioni socio-economiche e dell’assistenza statale è chiaramente fondamentale. È importante però notare come Germania e Paesi scandinavi, che possono godere di servizi e condizioni ben diverse dalle nostre, hanno anch’essi tassi di natalità estremamente bassi (alcuni video danesi, certamente meglio riusciti nella comunicazione della campagna italiana, hanno un contenuto molto simile a “fertilità bene comune”, eppure sono stati giudicati in maniera opposta). Tra le tante reazioni, a volte si è letto che come condizione necessaria per fare un figlio ci debba essere tutta una serie di garanzie statali, ma se fosse così saremmo estinti da un pezzo, anche perché per la maggioranza delle persone le condizioni perfette non ci sono né ci saranno mai. E come mostra il caso danese, non basta neanche avere tutte quelle condizioni.
3) … E allora, anche se sognassimo che per tutti le – importantissime! – questioni socio-economiche fossero risolte, c’è dell’altro: una questione socio-culturale per cui anche ad avere tutte le possibilità economiche, l’idea di avere un figlio, a seconda delle sfaccettature, è più o meno descritta così: “un peso”/ fine della libertà”/”non è più vita”/“mi godo la vita fino ai 40 poi vedremo”/“non è una responsabilità che mi voglio prendere”/”è un sacrificio”/“mi fa paura”/”prima la carriera… e potremmo continuare. Premesso che – sottolineatura scontata ma doverosa – chiunque può benissimo decidere di non fare figli, di farli quando vuole e di avere le priorità che ritiene legittime, forse dovremmo nutrire qualche dubbio sul fatto che non facciamo più figli sempre e solo per condizioni esterne.
E questo tema è ancor più profondo di quello economico, ed è una sfida che la nostra società non può permettersi di non affrontare.
Maria Cristina e Alberto Rossi