Nel solco del dibattito accesosi nella campagna referendaria sulla Riforma della Costituzione accade sovente di imbattersi in politici ed esperti a sostegno delle ragioni del sì o del no, quando non a sostegno del Governo o contro di esso, che non entrano in modo approfondito nel merito della Riforma, ma neppure nelle prospettive che un voto favorevole schiuderebbe.
È quanto mai necessario, invece, conoscere non soltanto i contenuti della Riforma ma anche le ragioni per cui alcune scelte, pur auspicabili, non hanno potuto trovare spazio e le implicazione che in prospettiva un’eventuale vittoria del sì dovrebbe comportare. Il superamento del bicameralismo perfetto è una delle scelte maggiormente condivise anche da chi è contrario all’insieme della Riforma costituzionale. L’art. 70 Cost. nel testo riformato prevede quale procedimento ordinario quello monocamerale (più del 90% dei casi), con la facoltà per un terzo dei senatori di chiedere l’intervento del Senato sul testo ed ulteriori 30 giorni per proporre emendamenti alla Camera. Il lungo articolo in questione prevede poi tutta una serie di casi tassativi in cui l’intervento del Senato è obbligatorio – anche se alla fine prevale il voto della Camera – e rimanda ad altri articoli che prevedono procedimenti legislativi speciali.
Certamente l’idea di introdurre il bicameralismo perfetto non era pacifico negli intenti dei costituenti, soprattutto con la preoccupazione che potesse nuocere all’efficacia del procedimento legislativo. Ma, in sede costituente, con la ‘guerra fredda’, prevalsero le preoccupazioni di evitare la concentrazione dei poteri in capo a un solo organo.
La soluzione scelta con l’attuale Riforma non è scevra da imperfezioni, ma soprattutto ci si interroga ancora su quale sarà in definitiva la modalità della elezione di Senatori. Allo stato, i nuovi Senatori recheranno nell’elezione indiretta – che non mina certamente il carattere democratico della nostra forma di governo – sia il tratto regionale (sarebbero eletti dal Consiglio regionale di provenienza e potrebbero essere eletti solo in quanto Sindaci o Consiglieri regionali) che quello politico (non cessano, infatti, di appartenere al partito o alla lista in cui sarebbero stati eletti in Regione o nei Comuni).
Si pone, pertanto, il dilemma: in mancanza di un voto “per delegazione regionale” – che avrebbe costretto i Senatori provenienti da una stessa regione a votare unanimemente al di là dell’appartenenza partitica e a favore di una maggior rappresentatività territoriale – non si rischierà di replicare in Senato le dinamiche partitiche tipiche della Camera? In tal caso che fine farebbe la rappresentanza territoriale? Del resto, a tale sistema di voto, che pur sarebbe stato più coerente, si sono opposte le forze di centrodestra, perché esso avrebbe consegnato il Senato al PD, che detiene attualmente la maggioranza in ben 17 regioni.
Si discute oggi sulla lunghezza formale dell’art.70, ma la regola della legge bicamerale vale solo per alcune leggi (in sintesi: leggi costituzionali, leggi attuazione costituzione su certe materie indicate, leggi riguardanti l’ordinamento degli enti locali, leggi di principio sulle associazioni fra comuni, leggi sulla partecipazione a formare/attuare diritto UE, leggi su prerogative senatori, legge elettorale Senato, leggi ratifica trattati UE, leggi attuazione titolo V (regioni, enti locali). Tutto quello non indicato è di competenza della Camera. Bilancio e stabilità vanno al Senato automaticamente, v. Tabella). Ma va segnalato che quelle competenze rappresentano meno dell’8% dei casi della complessiva legislazione vigente.
Non si può certo negare che con la riforma la procedura legislativa verrebbe snellita.
Francesco Pasquali