Gli ultimi 5-10 anni hanno visto l’Europa confrontarsi con una serie di crisi internazionali e conflitti vicino ai propri confini, dall’Ucraina alla Siria, alla Libia, fino alla più generale minaccia del terrorismo e alla sfida della gestione dei flussi migratori; fino a sfide sui generis impreviste come Brexit e, a suo modo, la stessa ascesa di Trump, con implicazioni ideali, commerciali e di difesa.
Nell’idea dei padri fondatori dell’Unione Europea, è proprio la capacità dell’Europa di agire unitamente e coesamente di fronte a tali sfide esterne il valore aggiunto dell’Unione, che effettivamente dovrebbe “fare la forza” consentendo politiche e decisioni che massimizzino le ingenti risorse che il continente può mettere in piedi minimizzando i rischi. Una sorta di “prova” della riuscita dell’Unione, consentendo alla stessa di pensarsi, ripensarsi e organizzarsi per meglio affrontare il presente e il futuro. Nel peggiore dei casi ipotizzabili, tali crisi dovrebbero comunque portare a una reazione europea dove essa sia protagonista di ogni tentativo risolutivo – per quanto difficile o lungo esso possa essere.
La realtà delle cose però appare diversa. Non solo l’Europa non sta fornendo una risposta unitaria e coesa – al di là dell’eventuale efficacia della stessa -, essa non sta proprio fornendo alcuna risposta. Il continente infatti osserva quasi da lontano ciò che accade al di fuori dei propri confini: c’è preoccupazione, c’è timore, c’è il desiderio di agire, ed eppure a tutto ciò non si collega un attivismo (anche solo politico) di nota in tal senso. L’Unione Europea sta piuttosto reagendo quasi passivamente agli eventi, facendosi trascinare da altri attori internazionali o, come per la questione migrazioni, semplicemente la affronta senza alcuna vera progettualità.
Le cause sono ben conosciute: l’Unione è sostanzialmente schiava della sua politica interna, da un lato dalle dispute tra stati sulla governance europea (specialmente quella economica) e dall’altra dalla necessità dei governi di dover costantemente rispondere alle sfide politiche interne (soprattutto dal crescente populismo), cosa che impedisce visioni di lungo termine o azioni al di fuori dei confini oltre certi limiti. In fondo, tutte le opinioni pubbliche europee sono convinte che di fronte alle sfide attuali serva “fare qualcosa”: lo leggiamo ogni giorno su media e social network. Ma le stesse opinioni pubbliche poi esitano nel momento in cui diventa più chiaro cosa quel “fare qualcosa” implichi davvero, dal punto di vista economico, diplomatico, politico o militare. La speranza è sempre che siano gli altri stati a pagare le spese e il prezzo, per goderne solo i vantaggi. Nel momento in cui tale visione tuttavia è quella di tutti, questo porta all’immobilità, nel momento in cui i vari governi a quel punto non osano prendere decisioni potenzialmente costose dal punto di vista del consenso elettorale.
Stiamo dunque affrontando sfide che, con il loro “pungolo”, dovrebbero essere capaci di portare l’Unione Europea a un’evoluzione positiva verso sistemi e politiche meglio adatte ad affrontarle. Invece, l’effetto è quello di chiuderci ulteriormente all’interno dei nostri confini e della nostra apparente sicurezza, quasi sorpresi che fenomeni come terrorismo, crisi internazionali, flussi migratori non si risolvano da soli.
Lorenzo Nannetti
@ilcaffegeopolitico