Mario Picozzi è medico, del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita dell’Università dell’Insubria. Gli abbiamo posto alcuni interrogativi.
La vicenda del dj Fabo e il dibattito in Parlamento sulla legge riguardante il fine vita ripropongono un tema che da anni viene dibattuto molto sui mass media e social e poco in Parlamento. Come mai? Credo siano venuti meno i luoghi culturali e prepolitici dove ci si possa confrontare seriamente, dicendo ognuno le proprie ragioni. Sono temi che occorrerebbe masticare prima che diventino norma, che è sì generale ed astratta ma che comunque nasce da un comune sentire. I giornali e i mass media in genere sono più portati a rilanciare la notizia eclatante e spettacolare, ma non c’è sintesi. E’ quindi comprensibile la difficoltà in cui si trovano i parlamentari a legiferare su questi temi.
Dal punto di vista clinico cosa si intende per eutanasia? E’ la richiesta di un malato fatta a una terza persona di porre fine alla sua vita poiché la ritiene non più degna di essere vissuta a causa delle sofferenze.
La legge oggi in Parlamento introduce forme o possibilità di eutanasia? Si può dare la morte sia facendo qualcosa – un’iniezione letale -, sia non facendo, rinunciando o sospendendo un trattamento. Le legge in discussione non prevede la prima fattispecie, mentre è prevista la possibilità che il paziente rifiuti qualsiasi trattamento. Si apre qui il tema se ogni rifiuto o sospensione sia un atto eutanasico o la legittima richiesta di rinuncia a trattamenti sproporzionati. Ed è su questa questione che occorre riflettere, tenendo conto che vanno tenuti distinti, anche se non separati, il piano giuridico e quello morale.
E’ quindi diverso parlare di rinuncia alle cure? Magari al fine di evitare l’accanimento terapeutico? Dal punto di vista giuridico il soggetto ha l’ultima parola, per cui può rinunciare ad ogni trattamento. Dal punto di vista morale ove i trattamenti siano sproporzionati, ovvero i rischi e i gli oneri psico-fisici siano superiori ai benefici attesi, è legittimo chiedere di non iniziare o sospendere le cure. Quindi non ogni rinuncia comporta un atto eutanasico. Una possibile traduzione giuridica di questo principio potrebbe essere che un soggetto che abbia una patologia a prognosi infausta, senza alternative terapeutiche, può rinunciare o chiedere di sospendere i trattamenti.
La persona potrà scegliere per una dichiarazione anticipata di volontà, ma essa può vincolare il medico a seguirne le indicazioni? Il rischio è quello di voler burocratizzare la vita, immaginando che paziente e medico siano due estranei. Ciò che maggiormente rileva nelle dichiarazioni anticipate o nella pianificazione delle cure è il percorso che porta a prendere determinate decisioni. All’interno di una buona relazione, sarà possibile dare garanzie di rispetto della volontà del soggetto precedentemente espressa.
Ma in una prospettiva di invecchiamento della popolazione non c’è il rischio che per motivi economici di spesa le cure comunque diminuiscano per anziani e cronici? Il tema è reale, nell’equilibrio fra acuzie e cronicità. Però questa deriva non è scontata: in questo senso occorre ripensare al tema delle cura e della presa in carico delle fragilità in termini antropologici e culturali, perché essi informino le scelte politiche in ambito sanitario.
(PaDan)